lunedì 30 marzo 2015

"La sabatizzazione del venerdì" Capite perché mi rompo le palle?

Nella mia "biblioteca" personale, trovano posto libri di diverso tipo, lo ammetto, potreste trovare roba da lacrima strappastoria, a poemi epici passando dai classici di King ed ovviamente serie di collezioni Urania, non mancano nemmeno libri che fanno della passione informatica una filosofia, uno di questi è "L'etica hacker" di Pekka Himanen, questo libro lo avrò letto milioni di volte, è un libricino che analizza il modo di vedere le cose secondo una mentalità hacker, non starò qui a parlare di tecnicismi e di altre amenità come se fosse un film del ragazzino che penetra le difese del pentagono, non si parla di questo, ma di semplici punti di vista che forse aiutano a capire perché mi rompo i coglioni ogni tanto pur facendo quello che a detta di molti è "ciò che mi piace"...vi riporto una parte del libro, tra le mie preferite. Con questo non sto qui a definirmi hacker, ma di certo non posso nemmeno definirmi in maniera cosi tanto diversa...


La sabatizzazione del venerdì:

...Se usiamo la nuova tecnologia per favorire la centralità del lavoro, tecnologie come quelle del telefono cellulare conducono facilmente a una dissoluzione del confine tra lavoro e tempo libero incentrata sul lavoro. Sia l'ottimizzazione sia la flessibilità del tempo tendono a far diventare il sabato sempre più simile al venerdì. Ma questo non è inevitabile. Gli hacker ottimizzano il tempo per avere più spazio per il divertimento: Torvalds pensa che, mentre si sta sviluppando Linux, ci debba sempre essere tempo per il biliardo o per sperimentare programmi che non abbiano scopi immediati. Lo stesso atteggiamento è stato condiviso dagli hacker fin dai tempi del Mit degli anni sessanta. Nella versione hacker del tempo flessibile, momenti diversi della vita come il lavoro, la famiglia, gli hobby eccetera, sono combinati meno rigidamente, in modo tale che il lavoro non sia sempre al centro della vita. Un hacker può raggiungere gli amici a metà giornata per un lungo pranzo, poi recuperare il lavoro nel pomeriggio tardi o il giorno successivo. A volte lui o lei possono spontaneamente decidere di staccare per un'intera giornata per fare qualcosa di completamente diverso. Il punto di vista dell'hacker è che l'uso delle macchine per l'ottimizzazione e la flessibilità del tempo dovrebbe condurre a una vita meno meccanizzata, ottimizzata e routinaria. Raymond scrive: "Per comportarsi come un hacker, ci si deve credere [al fatto che le persone non debbano sgobbare per lavori stupidi e ripetitivi] abbastanza da voler tagliar via automaticamente il più possibile le parti noiose, non solo per se stessi ma per tutti gli altri". Quando l'ideale degli hacker di un uso del tempo maggiormente autodeterminato si realizza, il venerdì (la settimana lavorativa) dovrebbe diventare più simile al sabato (il riposo) di quanto non lo sia stato tradizionalmente. Storicamente, ancora una volta questa libertà di autorganizzazione del tempo ha il suo predecessore nell'accademia. L'accademia ha sempre difeso la libertà di una persona di organizzarsi il tempo per conto proprio. Platone definiva la relazione accademica nei confronti del tempo affermando che una persona libera ha skhole, ovvero "moltissimo tempo [...] e il tempo le appartiene". (21) Ma skhole non significa soltanto "avere tempo", ma anche una certa relazione con il tempo: una persona impegnata nella vita accademica poteva organizzarsi il proprio tempo da sola: poteva combinare lavoro e svago nel modo che preferiva. Anche se un individuo libero poteva impegnarsi a fare certi lavori, nessun altro possedeva il suo tempo. Non avere la responsabilità del proprio tempo, askholia, veniva associato a uno stato di prigionia (o di schiavitù). Nella vita preprotestante, perfino al di fuori dell'accademia, le persone avevano una maggiore responsabilità del loro tempo rispetto al periodo successivo alla Riforma protestante. Nel suo libro Storia di un paese: Montaillou, Emmanuel Le Roy Ladurie traccia un affascinante ritratto della vita in un villaggio medievale nel passaggio dal Tredicesimo al Quattordicesimo secolo. Gli abitanti di Montaillou non avevano alcun modo per definire il tempo in maniera esatta. Quando ne parlavano, usavano espressioni vaghe, dicendo che qualcosa era successo "nella stagione in cui gli olmi hanno le foglie", oppure che per fare qualcosa era stato necessario "il tempo di due Paternoster". (22) A Montaillou non c'era bisogno di misurazioni più precise del tempo, in quanto le attività del villaggio non procedevano secondo un ritmo lavorativo regolare. Le Roy Ladurie continua: "I montalionesi non si tirano indietro di fronte a una grossa necessità e, quando bisogna, fanno una faticata [...]. Ma la nozione di orario continuato resta loro estranea [...]. Concepiscono la giornata lavorativa soltanto se intervallata da lunghe e irregolari pause, durante le quali si chiacchiera con un amico, trasportando e bevendo vino [...]. A queste parole, disse Armand Sicre, riposi il mio lavoro e andai da Guillemette Maury [...]. E ancora lo stesso Arnaud, Pierre Maury mi fece cercare nella bottega dove facevo delle scarpe [...]. Guillemette mi fece dire di andare da lei, cosa che feci [...]. Oppure: Sentendo ciò, lasciai il lavoro che stavo facendo". (23) In larga misura, a Montaillou era ancora il lavoratore, e non l'orologio, a determinare il ritmo. Oggigiorno, un calzolaio che decida di smettere il lavoro e di andarsi a bere un bicchiere di vino con un amico nel bel mezzo della giornata sarebbe licenziato, a prescindere dal numero di scarpe prodotte e dalla qualità del lavoro. E ciò perché i lavoratori della nostra epoca non godono più della stessa libertà di disporre del proprio tempo di cui un ciabattino o un pastore godevano nel "buio" Medioevo. Naturalmente, nessuna descrizione del lavoro medievale è completa senza parlare della schiavitù della gleba, ma al di fuori di questa importante eccezione possiamo dire del lavoro medievale che, purché si raggiungessero obiettivi ragionevoli, nessuno sorvegliava l'uso che i lavoratori facevano del proprio tempo. Soltanto nei monasteri l'attività era legata all'orologio, quindi, ancora una volta, il precedente storico dell'etica protestante può essere trovato in tale ambito. Infatti, se scorriamo le regole monastiche, spesso si prova la sensazione di leggere una descrizione delle norme aziendali dominanti nel nostro tempo. La regola di Benedetto ne è un buon esempio. Essa insegnava che gli schemi della vita devono essere "ripetuti sempre [...] alla stessa ora e alla stessa maniera". (24) Queste ore erano le sette ore d'ufficio canoniche (horas officiis): (25) lba: laudi (laudes) 9.00: prima (prima) mezzogiorno: sesta (sexta) 15.00: nona (nona) 18.00: vespri (vespera) crepuscolo: compieta (completorium, il completamento della giornata) notte: mattutino (matutinae).par Queste ore canoniche circoscrivevano il tempo per tutte le attività. L'orario di sveglia era sempre lo stesso, così come l'ora di andare a letto. (26) Anche al lavoro, allo studio e ai pasti venivano assegnati orari precisi. Secondo la regola di Benedetto, ogni scostamento dagli orari quotidiani stabiliti doveva essere punito. Il dormire troppo veniva condannato: "A meno che - non sia mai! - si alzino tardi". (27) A nessuno era permesso di concedersi spontaneamente una pausa per uno spuntino: "E nessuno si permetta di prendere qualcosa da mangiare o da bere prima dell'ora stabilita o dopo". (28) Non presentarsi all'inizio delle sacre ore d'ufficio veniva punito: (29) l'unica eccezione alla richiesta di sollecitudine assoluta nei riguardi delle ore d'ufficio era la preghiera notturna, alla quale si poteva arrivare a qualsiasi ora fino alla lettura del secondo salmo. (30) L'etica protestante portò l'orologio fuori dal monastero fin dentro la vita quotidiana, dando origine al concetto di lavoratore moderno e alla nozione di posto e di orario di lavoro a esso associati. Dopodiché, le parole dell'autobiografia di Franklin si applicano a tutto: "A ogni parte del mio lavoro dovevo dedicare tutto il tempo che fosse necessario". (31) Nonostante le nuove tecnologie impiegate, l'economia dell'informazione è basata prevalentemente sulle ore d'ufficio, senza lasciare spazio alle variazioni individuali. Questo è uno strano mondo, e gli adeguamenti a esso non si sono verificati senza una forte resistenza. Nel suo articolo Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism (1967), (32) lo storico sociale Edward Thompson descrive le difficoltà incontrate nella transizione al lavoro industriale. Egli nota che gli agricoltori medievali, per esempio, erano abituati a un tipo di lavoro suddiviso in mansioni. Nel loro pensiero tradizionale l'essenziale risiedeva nel portare a termine la mansione. Il tempo poneva dei limiti esterni, ma, all'interno di essi, ci si poteva occupare dei vari compiti secondo le inclinazioni personali. Il lavoro industriale, d'altra parte, era orientato al tempo: il lavoro veniva definito dal tempo impiegato per svolgerlo. Era l'idea di definire un rapporto tra il lavoro e il tempo e non con il lavoro in sé che coloro che vissero in età preindustriale trovavano estranea, e contro la quale opposero resistenza. Ciò che la tecnologia dell'informazione fa intravedere è la possibilità di una nuova forma di lavoro orientata alle mansioni. Ma è importante ricordare che questo non accade automaticamente. Infatti, il paradosso è che al momento questa tecnologia viene usata per una maggiore supervisione del tempo, per esempio attraverso meccanismi come il cartellino da timbrare. (L'assurdità di questa applicazione tecnologica mi fa venire in mente un mese assai istruttivo trascorso nell'India in via di industrializzazione. Durante le mie passeggiate quotidiane, iniziai a notare gli spazzini che stavano dalla mattina alla sera agli angoli delle strade, senza che queste fossero più pulite. Quando espressi la mia perplessità a un amico indiano e chiesi perché i responsabili di questi spazzini non si lamentassero della situazione, lui mi rispose che avevo considerato la questione da una prospettiva completamente sbagliata. Avevo erroneamente ritenuto che il compito dello spazzino indiano fosse quello di spazzare le strade, ma, precisò lui, il suo lavoro non consiste nello spazzare la strada; è invece quello di esistere impeccabilmente in quanto potenziale spazzino! Questa è una bella espressione valida anche per l'ideologia che sta alla base del cartellino da timbrare. I più raffinati sistemi per controllare il tempo che io abbia visto sottintendono dozzine di codici di comportamento personale con i quali indicare tutte le sfumature delle impeccabili esistenze della gente che li usa, compreso lo stato del loro sistema digestivo - che è la principale giustificazione delle pause di lavoro. Questo è un uso della tecnologia orientato al tempo nella forma più pura possibile.) 

...

Il ritmo della creatività:

  innegabile il fatto che oggigiorno i manager si concentrino ancora troppo sui fattori esterni al lavoro, come il tempo e il luogo in cui si trova il lavoratore, invece di esortare a quella creatività da cui dipende il successo di un'azienda nell'economia dell'informazione. La maggior parte dei dirigenti non ha capito le profonde conseguenze della seguente domanda: Il nostro scopo sul lavoro è quello di "passare il tempo" o di fare qualcosa? Nei primi anni settanta Les Earnest, del laboratorio di intelligenza artificiale dell'Università di Stanford, ci ha fornito un efficace compendio della risposta degli hacker a questa domanda: "Noi cerchiamo di giudicare la gente non da quanto tempo spreca ma dagli obiettivi che raggiunge in periodi di tempo abbastanza lunghi, da sei mesi fino a un anno". (33) Questa risposta può essere compresa in termini sia puramente pragmatici sia etici. Il messaggio pragmatico è che la fonte più importante di produttività dell'economia dell'informazione è la creatività, e non è possibile creare cose interessanti in condizioni di fretta costante o con un orario regolato dalle nove alle cinque. Quindi, perfino per ragioni puramente economiche, è importante permettere la giocosità e gli stili di creatività individuali, dal momento che, nell'economia dell'informazione, la cultura della supervisione si rivolta facilmente contro gli obiettivi che si è prefissata. Naturalmente, bisogna aggiungere un'importante condizione: nella realizzazione di un progetto tipico di una cultura orientata alle mansioni, i programmi prefissati non sono a termine troppo breve - non sono le scadenze inappellabili di una vita di sopravvivenza - in modo da permettere lo sviluppo di una vera opportunità per il ritmo creativo. Ma, naturalmente, la dimensione etica richiesta è ancora più importante di queste considerazioni pragmatiche: stiamo parlando di una vita degna di essere vissuta. La cultura della supervisione dell'orario di lavoro considera gli adulti come persone troppo immature per essere responsabili delle proprie vite. Presuppone che in qualsiasi impresa o agenzia governativa esistano soltanto poche persone che siano sufficientemente mature per assumersi le proprie responsabilità, e che la maggioranza degli adulti non è in grado di farlo senza una guida continua fornita da un ristretto gruppo di autorità. In una cultura del genere, la maggioranza degli esseri umani si trova condannata all'obbedienza. Gli hacker hanno sempre rispettato l'individuo. Sono sempre stati antiautoritari. Raymond definisce la posizione degli hacker in questi termini: "L'atteggiamento autoritario deve essere combattuto dovunque sia, affinché non soffochi te e gli altri hacker". (34) L'etica hacker ci ricorda anche - data la riduzione del valore individuale e della libertà che si verifica in nome del "lavoro" - che la nostra vita è qui e ora. Il lavoro è una parte della nostra vita in continuo divenire, nella quale ci deve essere spazio anche per altre passioni. Innovare le forme di lavoro è una questione di rispetto non soltanto nei confronti dei lavoratori ma anche per gli esseri umani in quanto tali. Gli hacker non fanno proprio l'adagio "il tempo è denaro", ma piuttosto "la vita è mia". E certamente adesso questa è la nostra vita, che dobbiamo vivere pienamente, e non una versione "beta" ridotta.

martedì 3 marzo 2015

"Ma li che tempo fa?" Discorsi inutili per chiamate inutili.



Non ho paura di offendere il prossimo, non perché io voglia farlo espressamente, ma perché ho talmente accumulato una serie di esperienze di assistenza tennica che potrei (e non è detto che non lo faccia) farne un libro. Ma questa volta non parlo di una delle mie tante sventure, ma di una abitudine, quella del cliente, di fare discorsi "del cazzo", discorsi fatti di convenevoli, discorsi fatti di falsi interessi verso la vita del chi ti sta parlando al telefono. Uno su tutti? assolutamente ovvio, al telefono mi sento dire dopo un po:

"...E LI CHE TEMPO FA?"




Ma vi rendete conto della pochezza di contenuto intrinseca della domanda appena fatta? Ma vi rendete conto di quanto sia ridicola fatta in un contesto dove io sovra pensiero sto risolvendo i vostri inutili problemi? E' imbarazzante anche rispondere, è imbarazzante tenere in piedi una discussione? Inventate una storia, raccontate una barzelletta, o meglio ancora, state zitti.

D.